Onorevoli Colleghi! - Heinz Leymann fu il primo ad utilizzare, all'inizio degli anni ottanta, il termine anglosassone mobbing (letteralmente «aggressione in banda, di gruppo») nel campo della medicina del lavoro (1), mutuandolo dagli studi dell'etologo austriaco Konrad Lorenz (2). Egli dette vita a una scuola, quella scandinava, che è tutt'oggi la più titolata, insieme a quella tedesca e a quella anglosassone, nella ricerca «sul terrorismo psicologico
nei luoghi di lavoro». Nel corso dell'ultimo scorcio di secolo, l'interesse verso tale fenomeno ha conosciuto un notevole impulso tanto che oggi, anche nel nostro Paese, si inizia ad attribuire a questa particolare forma di «stress post-traumatico» una certa rilevanza nel campo della psicologia del lavoro e dell'organizzazione aziendale. A partire dagli studi di Leymann numerose scuole sono fiorite nel mondo, spesso di orientamento diverso - ora più attente agli aspetti medici del fenomeno, ora di ispirazione più marcatamente sociologica - e in alcuni casi al termine mobbing sono state preferite altre terminologie (soprattutto bullyism at work, ma anche harassment, horizontal violence). Tuttavia le caratteristiche di fondo individuate da Leymann hanno costituito l'humus necessario per tutte le elaborazioni successive.
Leymann definisce il mobbing come «l'esercizio del terrorismo psicologico nell'ambiente di lavoro attuato in maniera sistematica attraverso modalità comunicative ostili ed eticamente scorrette». A metterlo in pratica sono uno o più individui nei confronti di un soggetto che, spinto in una condizione di debolezza o emarginazione, è incapace di uscirne a causa della pressione psicologica continuativa esercitata nei suoi confronti. È importante sottolineare che Leymann non prende in considerazione i conflitti episodici o temporanei - inevitabili in un luogo di lavoro - ma soltanto quelli che si verificano con una frequenza minima (almeno una volta alla settimana) e per un periodo di tempo di almeno sei mesi. Le gravi conseguenze sulla salute psicologica del lavoratore «mobbizzato» sono proprio il risultato dell'elevata frequenza e del perdurare del mobbing. In altri termini, la definizione di Leymann non focalizza tanto l'attività persecutoria in sé quanto la sofferenza che essa procura; non prende in esame tanto cosa è stato fatto e in che modo quanto piuttosto il punto di rottura a partire dal quale un fattore di stress (stressor) sfocia in una situazione patologicamente rilevante sotto il profilo psichiatrico o psicosomatico. Il mobbing, secondo lo studioso tedesco, non è sinonimo di conflitto, né ne costituisce lo sviluppo inevitabile, ma soltanto uno dei suoi possibili esiti determinato dal verificarsi di particolari condizioni.
Non esiste, cioè, alcun rapporto diretto di causa-effetto tra il manifestarsi di un conflitto e l'insorgere del mobbing e solo l'individuazione di determinati dispositivi psicosociali rintracciabili all'interno dell'organizzazione del lavoro può fornire gli strumenti per la sua individuazione. Anche nel caso in cui il mobbing si sviluppi apparentemente al di fuori di un conflitto preesistente e si indirizzi nei confronti di un singolo soggetto «caratteriale» (la persona timida, complessata, ipersensibile o, viceversa, quella invadente, sicura di sé, egoriferita) è sempre nella carente organizzazione del lavoro che ne va rintracciata l'origine. Leymann è estremamente chiaro su questo punto: «Io indago su quel particolare tipo di stress mentale e psicosomatico nei posti di lavoro di cui studio le conseguenze, le condizioni patologiche e le malattie che esso genera. La definizione scientifica del termine "mobbing" si riferisce dunque all'interazione sociale attraverso la quale un individuo (raramente più d'uno) è attaccato da una o più persone (raramente più di quattro) con frequenza quasi quotidiana e per periodi di tempo molto lunghi». (Si veda il Manuale LIPT, Leymann Inventory Of Psychological Terrorization [Inventario di Leymann del Terrorismo Psicologico]). La precisazione di Leymann sul numero di soggetti generalmente coinvolti in situazioni di mobbing (poche unità) può aiutarci a comprendere meglio la differenza tra conflitto e mobbing. È rarissimo, se non impossibile, che un ambiente lavorativo sia esente da dinamiche conflittuali. Vi può essere conflitto - manifesto o inespresso - tra management e dipendenti (a causa dell'insufficiente retribuzione, dell'eccessivo carico di lavoro, degli orari di servizio, eccetera) così come tra gli stessi dipendenti (a causa dell'attribuzione ad altri di mansioni gratificanti a cui si riteneva di avere diritto, per la mancanza di disponibilità di un collega ad accettare una
a) il conflitto quotidiano. In tutti i posti di lavoro si sviluppano quotidianamente conflitti di vario genere che non rappresentano mobbing ma possono darvi luogo qualora non siano risolti;
b) il conflitto irrisolto assume carattere continuativo, e al suo interno si definiscono i ruoli di mobber (colui/colei/coloro che iniziano a perseguitare sistematicamente uno o più soggetti) e di vittima (colui/colei/coloro che subiscono il terrore psicologico e vengono messi nella condizione di non potersi difendere). Inizia la fase del mobbing vero e proprio;
c) errori, abusi e illegalità da parte del management e dell'amministrazione del personale. Una volta che la situazione di mobbing si palesa la sua eco giunge di regola all'amministrazione del personale, la quale inizia le indagini sul caso, sabotate dal mobber attraverso maldicenze, voci infamanti e falsità sul conto della vittima. Parallelamente quest'ultima inizia ad accusare problemi di salute di carattere fisico e psichico ed è costretta ad assentarsi frequentemente per malesseri o visite mediche, manifestando un chiaro calo di rendimento. L'amministrazione del personale tenta di eliminare il problema eliminando la vittima, che viene fatta oggetto di provvedimenti disciplinari, declassamenti o trasferimenti, fino a porla in una situazione insostenibile che la induce a considerare come unica via di uscita le dimissioni;
d) l'eliminazione della vittima. Essa si dimette, chiede il prepensionamento o viene licenziata. Il mobbing può avere anche esisti più tragici, come il suicidio della vittima e il tentato omicidio o omicidio del mobber. D'altra parte non tutti i casi di mobbing giungono a quest'ultima fase.
Il mobber può celarsi tanto in un capo che in uno o più colleghi. La casistica disegna gli attori del mobbing con dei tratti caratteriali abbastanza precisi. Il capo dispotico è in genere un soggetto che soffre la propria inadeguatezza a ricoprire il ruolo rivestito, che non nutre alcuna stima verso se stesso e cerca di colmare l'insicurezza abusando del potere che gli è stato conferito. Dispone di limitate capacità comunicative e relazionali - è incapace, in sostanza, di gestire i rapporti umani - ha una scarsa professionalità e una forte mentalità vendicativa. In alcuni Paesi, come Italia e Stati Uniti, esso è il mobber per eccellenza. In altri, come nei Paesi scandinavi e in Germania, sono i colleghi a indossare più spesso i panni dell'aguzzino, dando vita a una sorta di mobber collettivo che si muove e colpisce secondo le modalità del branco. L'ambiente in cui più facilmente emergono i «cattivi colleghi» è caratterizzato in genere da:
omogeneità sociale, culturale, etnica, di genere o di età (un ufficio dove gli impiegati sono tutti maschi, tutti italiani, tutti giovani, tutti laureati, eccetera);
legami personali fragili (grandi società con migliaia di dipendenti, occupazioni alienanti, rapporti umani spersonalizzati e finalizzati al lavoro e alla carriera);
«amoralità diffusa» (dipendenti corrotti, complicità dell'azienda in frodi e illeciti);
inefficienza lavorativa (scarsa produttivà o incompetenza).
La vittima del mobbing può corrispondere ad identikit di vario genere. Può essere il cosiddetto «primo della classe» - dalle elevate capacità professionali, dal particolare carisma o dalla grande esperienza lavorativa - che in quanto tale suscita le gelosie dei colleghi - o il soggetto deviante o «diverso» che si presta perfettamente a ricoprire il ruolo di capro espiatorio. Quest'ultima definizione non va intesa secondo l'accezione generica: il mobbing è un sistema rigoroso, governato da una sua precisa dinamica interna e basato sull'assegnazione di ruoli ben definiti. Sarebbe dunque estremamente errato individuare un capro espiatorio ricorrendo soltanto a un giudizio di valore. Esso, infatti, serve a distogliere l'attenzione dal gruppo, dalle sue deficienze organizzative e professionali, ne garantisce, in una parola, la sopravvivenza. Esso appartiene preferibilmente a una minoranza - etnica, politica (un sindacalista), di genere (un omosessuale) - può essere una persona facilmente ricattabile per la sua giovane età, per la sua mancanza di esperienza o per la precarietà della sua posizione lavorativa (part-time, contratto di collaborazione o lavoro interinale). Il capro espiatorio, dunque, non è soltanto il «mezzemaniche fantozziano», il dipendente caratterialmente debole e senza qualità, o il manager «incompreso» (sulle cui presunte persecuzioni sta fiorendo una letteratura giornalistica dai toni di imbarazzante faciloneria) ma innanzitutto una persona che rompe l'uniformità del gruppo, che viene colpita, cioè, perché la coesione cooperante si è istituzionalizzata in gruppo, dandosi regole e gerarchie sommerse nelle quali lei non rientra. Questa precisazione è estremamente importante perché ci riporta alle nuove, per certi versi «ciniche», modalità relazionali dell'organizzazione del lavoro postfordista, dove l'annullamento delle individualità è la precondizione necessaria per l'applicazione delle flat hierarchies, le «gerarchie piatte». Studiate per creare un ambiente di lavoro all'apparenza collaborativo e informale (e per eliminare i quadri intermedi in eccesso), esse sono in realtà uno strumento formidabile per azzerare il tasso di conflitto verso il management, indirizzandolo e internalizzandolo tra le fila del team. Flessibilità e multiskilling (3) appiattiscono le competenze personali e rendono ogni singolo dipendente interscambiabile e sostituibile alla stregua di una parte meccanica. Tali strategie, ben lungi dal «democratizzare» il luogo di lavoro, rendono quest'ultimo particolarmente esposto alla creazione di lobbies e contribuiscono alla costituzione di microcomunità impermeabili a qualsiasi nuovo innesto. Inoltre, il senso di precarietà che caratterizza la condizione lavorativa e il timore di poter essere rimpiazzati in qualsiasi momento, rendono diffidenti e ostili verso il prossimo, visto più come concorrente che come collega, e inducono il gruppo ad attuare una strategia «conservativa» degli equilibri precari garantiti dallo status quo.
Le trasformazioni strutturali del lavoro nell'era della globalizzazione tecnologica e del mercato totale, la flessibilità, il downsizing, l'outsourcing, più in generale la struttura organizzativa stessa dell'impresa moderna producono mobbing in virtù del riallineamento definitivo dei tempi della «macchina-uomo» da quelli della «macchina-organizzazione». L'impresa globalizzata è, per certi versi, il brodo di coltura ideale per il mobbing: la competitività esasperata, lo sfruttamento selvaggio delle risorse umane, l'inarrestabile ricorso all'automazione informatizzata, sottopongono il lavoratore a un tasso di stress mai conosciuto prima, esigono da lui un livello
di competenze sempre maggiore e una disponibilità personale sempre più incondizionata. Questo scenario è definito da McCarthy «capitalismo del caos», un fosco orizzonte segnato, oltre che dalla frenesia dei ritmi produttivi, da una profonda indefinitezza delle prospettive generali dello sviluppo umano: un magma ribollente che viene sussunto dalle nuove ideologie aziendali e scaricato brutalmente e scientificamente sulla forza lavoro del terziario avanzato. È l'esercizio di quella che lo studioso australiano chiama organizing violence, violenza organizzativa, ossia «una violenza psicologica che organizza produttivamente le risorse umane dell'azienda per spremerle di più. Pur di venire incontro alle richieste dei mercati, le imprese odierne provocano dei "flussi di brutalità" che scorrono indisturbati sotto la superficie dell'organizzazione aziendale e generano una guerra di tutti contro tutti».
Il capro espiatorio può essere, infine, un soggetto non disponibile a compromessi e con forti motivazioni etiche. È il caso del whistleblower, del «delatore», di colui, cioè, che assecondando i propri princìpi morali, si rifiuta di osservare la regola dell'omertà ed esce allo scoperto per denunciare illegalità fino a quel momento tollerate o addirittura tutelate (appropriazioni indebite e corruzione, episodi di sessismo, intimidazioni e discriminazioni, eccetera). Il whistleblower è una figura chiave del mobbing e può sembrare che ne costituisca in qualche modo il versante romantico e «letterario». A dispetto di ciò, in realtà, esso si sostanzia di una grandissima concretezza e dimora più nelle pagine della cronaca che in quelle dei romanzi. Il whistleblowing diviene una pratica ad alto rischio personale in quegli ambienti lavorativi fondati sullo spirito di corpo (come i reparti dell'esercito e della polizia, l'amministrazione delle carceri (4) e, in genere, tutti i settori «operativi», dove esso si intreccia con la sua forma più esasperata, il cameratismo e la sua perversione, il nonnismo) o laddove è maggiore la contiguità con il denaro e la sua erogazione illegale (l'articolato sistema della corruzione aziendale). Proprio perché la posta in gioco è alta, il delatore paga spesso un prezzo estremamente oneroso, in termini di salute psicofisica e di vita lavorativa.
Il mobbing assume talvolta la valenza di strategia aziendale pianificata. Ciò accade quando è necessario predisporre degli esuberi in determinati comparti, ristrutturare un settore obsoleto, incentivare in maniera selvaggia i ritmi produttivi. È quello che la letteratura in materia definisce bossing o mobbing verticale, esercitato cioè dalla direzione verso i dipendenti. Esso può essere indirizzato chirurgicamente (nei confronti di determinati soggetti che si vuole eliminare senza incontrare resistenze sindacali o dover dare conto al giudice del lavoro della mancanza di giusta causa) o praticato nei confronti di interi gruppi di lavoratori (come misura punitiva, per forzare una chiusura al ribasso di una trattativa con il personale, per eliminare articolazioni aziendali non più produttive). In Italia è giunta recentemente eco alle cronache di una tipica vicenda di bossing, quella riguardante la Palazzina LAF dell'Ilva di Taranto. Questa azienda, in origine di proprietà pubblica, è stata privatizzata nella seconda metà degli anni novanta e rilevata dal gruppo Riva, la cui dirigenza espresse subito la necessità di praticare 1.000 esuberi tra il personale. Tali esuberi, dopo una lunga trattativa sindacale, furono riassorbiti in cambio di flessibilità, mobilità, limitazione del diritto di sciopero e, soprattutto, a condizione che la gran parte dei lavoratori con la qualifica di impiegato fossero declassati alla qualifica di operaio. Ad essi, in altri termini, fu proposta la novazione del rapporto di lavoro, il che prevedeva il loro licenziamento come impiegati e la riassunzione, a parità di stipendio, come operai. Coloro che rifiutavano il declassamento venivano mandati alla Palazzina LAF, antica sede degli uffici del laminatoio
a freddo, ora in disuso, dove erano costretti a trascorrere l'intera giornata lavorativa senza alcuna mansione da svolgere, sottoposti a un terribile stress psicologico fino ad essere ridotti all'umiliante condizione di residuo umano (5).
Un processo di mobbing, una volta giunto a termine, lascia sul terreno più di una vittima. Il lavoratore, in primo luogo, al quale nessuno potrà ripagare le sofferenze patite e i danni psicofisici riportati. I suoi colleghi, i quali pur non essendo intervenuti in soccorso della vittima - o avendo addirittura contribuito alla sua fine - hanno vissuto per mesi o anni un clima di tensione che ha alimentato ulteriormente diffidenze e conflitti. Infine l'azienda, la quale deve sopportare costi di vario tipo: economici (i lunghi periodi di malattia delle vittime e i rimborsi che sempre più spesso è costretta a pagare in sede giudiziaria); organizzativi (le varie misure di riassetto dei reparti teatro del mobbing); di riqualificazione del personale (in molti Paesi, specialmente quelli scandinavi, l'azienda è tenuta per legge a predisporre piani di ristrutturazione, riqualificazione e formazione professionale in presenza di conflitti endemici) (6).
Elevatissimi sono anche i costi sociali (7). Già nel 1991, Toohey denunciava il
circolo vizioso alimentato dal mobbing. I costi, infatti, sopportati dal sistema sanitario per fronteggiare i casi di malattia derivanti dai maltrattamenti psicologici di lavoratori crescono in misura esponenziale perché l'industria della salute focalizza il suo intervento sullo stato di malattia e non sulla necessità che esso sia evitato; invece di condurre ricerche nei luoghi di lavoro che producono la malattia, il medico si limita a diagnosticare uno generico stato di stress per il quale prescrive cure (farmacologiche o meno) tanto lunghe quanto costose e inefficaci. La maggior parte dei lavoratori fortemente abusati psicologicamente non è in grado tuttavia di continuare la propria attività senza alcuna tutela e tende a collocarsi prematuramente in pensione. In Svezia, già a partire dai primi anni novanta, il 25 per cento della forza lavoro di età superiore ai 55 anni si ritirava precocemente dal lavoro; circa il 30 per cento di questi prepensionamenti erano dovuti alle sofferenze per le carenti condizioni psicosociali lavorative.
L'insieme di espedienti messi in atto dal persecutore ha una matrice comune: il rifiuto della comunicazione diretta. Ritorniamo così al principium individuationis caro a Leymann: possiamo riconoscere il volgere di un conflitto verso lo stadio di «psicoterrore» attraverso lo spegnimento dei livelli comunicativi interpersonali. Attenzione, non della comunicazione tout court ma soltanto di quella diretta, costruttiva, fondata sullo scambio reciproco di informazioni, sul dialogo. Viceversa, è impensabile che una strategia di mobbing possa ottenere gli effetti desiderati senza ricorrere alla comunicazione indiretta, tesa soltanto al discredito e allo svilimento della vittima agli occhi degli altri. La sottrazione al dialogo funge in questo caso da dispositivo di annullamento dell'interlocutore. Non parlo con te semplicemente perché non esisti. Per perfezionare l'opera di «sparizione» della vittima concorrono poi altri espedienti: rimproveri vaghi, imprecisi o contraddittori, battute e sottintesi malevoli, calunnie e insinuazioni umilianti. Questo concorso di sevizie psicologiche conduce inevitabilmente la vittima ad essere preda di svalutazione, senso di inferiorità, complessi di colpa e disistima di se stessa (8). Banalizzando, potremmo dire che ogni mobber sa di aver portato a buon esito il proprio «lavoro» quando la vittima inizia a credere di essere essa stessa causa delle sue sofferenze.
Anche il sesso - soprattutto quello alluso, «parlato», evocato - è in molti casi una delle armi predilette del mobber, una volta che egli abbia prescelto una donna come vittima. Il ricorso continuo ed ostentato a un linguaggio volgare, il gossip a sfondo sessuale (teso a screditare la vittima sotto il profilo della «moralità»), l'uso mirato di calunnie, doppi sensi e riferimenti sibillini sono strumenti molto più efficaci, infatti, delle avance dirette, le quali trovano uno spazio limitato nel bagaglio del persecutore di professione. Vittime del mobbing sessuale sono in grandissima maggioranza le donne (con una percentuale intorno all'86 per cento) e solo in rarissimi casi (4 per cento) esse subiscono aggressioni sessuali vere e proprie. Nel restante numero dei casi, la molestia avviene senza contatto fisico e viene messa in atto attraverso mezzi indiretti (foto pornografiche lasciate sulla scrivania, e-mail o file dal contenuto osceno inseriti nel computer, «scherzi» volgari, attacchi alla reputazione e calunnie a sfondo sessuale).
Nel nostro Paese non esiste alcuna normativa che tuteli il lavoratore da questa sofisticata e devastante forma di persecuzione. Se è impossibile agire perché la stessa struttura del lavoro, sempre più
globalizzata e complessa, sia riformata, è tuttavia possibile e doveroso predisporre un sistema di tutele e garanzie in grado di arginare un fenomeno in crescita esponenziale e di ridare dignità e sicurezza a chi quotidianamente affronta un sistema produttivo che esige un coinvolgimento emozionale e intellettivo al limite del burn-out. Lo Stato e le aziende, dunque, non possono non farsi carico di questa vera e propria emergenza e non è più rimandabile il varo di una legge che sappia riconoscere e sanzionare adeguatamente le persecuzioni psicologiche messe in atto nei luoghi di lavoro.
Tali sono le finalità della presente proposta di legge il cui contenuto è illustrato di seguito:
l'articolo 1 definisce cosa vada inteso per persecuzione psicologica (mobbing);
l'articolo 2 illustra le misure di prevenzione che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è tenuto a predisporre nei luoghi di lavoro;
l'articolo 3 chiarisce gli obblighi che il datore di lavoro è tenuto ad osservare;
l'articolo 4 definisce i casi in cui ricorrere a sanzioni disciplinari e punire comportamenti illeciti da parte del datore di lavoro, decretandone l'annullabilità quando essi siano stati adottati con il fine di recare danno al lavoratore;
l'articolo 5 specifica i casi in cui è previsto il ricorso alla giustizia ordinaria.